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Descrizione

A sei anni ero emigrante e lo sono stato fino a diciotto quando da emigrante sono diventato soldato. La Francia è stata la mia seconda terra. Lì ho imparato un mestiere, ho saputo cosa vuol dire non avere sempre fame e vivere una vita fatta non soltanto di sacrifici.

Per noi, giovani marmorini, la Francia era il Perù, l’America … anche se il cuore restava al di là del confine. Partivamo per riempirci la pancia, ma la nostalgia delle nostre famiglie, delle nostre borgate e delle nostre montagne creava un vuoto impossibile da colmare. Non c’erano né abbraccio né parole che potessero alleviare il dolore del distacco.

Mio padre, emigrante lui stesso, era tornato quell’anno a giugno  per i lavori dei campi dicendo che a settembre sarebbe ripartito portando con lui anche me. Mi aveva affittato a una famiglia di Arles per la quale aveva già lavorato come  sellaio: avevano bisogno di un giovane “servitur”!

Ero così piccolo che la novità non mi fece alcuna impressione, anzi, mi sentivo grande all’idea di partire con mio padre per la Francia. Continuai comunque tutta l’estate a fare il piccolo “servitur” a casa mia. C’erano il fieno da fare, le mucche da portare al pascolo, la segale da mietere e non c’era il tempo per pensare.

Quella mattina già fresca di settembre, però, il pianto soffocato di mia madre, il suo forte abbraccio e gli sguardi curiosi dei miei fratelli, inconsciamente mi trasmisero la tristezza e la solitudine che mi avrebbero accompagnato per tutta la mia avventura. Io, con il tascapane a tracolla e gli zoccoli nuovi, partii baldanzoso rivolgendo lo sguardo verso il sole che spuntava dal colle del Mulo.

Mentre camminavo dietro a mio padre, la curiosità di conoscere quello che mi aspettava al di là delle montagne superava di molto l’angoscia di lasciare i muri e i pascoli in cui ero cresciuto. Durante il viaggio ogni sentiero, ogni colle, ogni ruscello riservava una sorpresa e non ci fu tempo per la nostalgia che affiorò con prepotenza solamente quando la porta della mia nuova casa si chiuse alle mie spalle.

Mi accorsi allora di essere solo, tra gente sconosciuta che parlava una lingua per me incomprensibile.Non ero cresciuto tra baci e carezze, ma quella sera il sonno tardò a venire e quando giunse, sognai lo sguardo benevolo di mia madre.

Ora a distanza di ottant’anni, mi rendo conto che, tra i tanti “affittati” come me, ero uno dei più fortunati: ero capitato tra persone buone, che avevano sempre desiderato un figlio maschio, ma che avevano avuto quattro femmine.

Durante quell’inverno, in cambio di un po’ di lavoro, ebbi vestiti e scarpe nuove, quattro dolci sorellastre come maestre e all’arrivo della primavera sembravo una di quelle marmotte delle mie montagne quando aspettano, belle pasciute, l’ora del letargo.

Nonostante fossi considerato quasi un figlio anziché un servitur, come le marmotte, anch’io da tempo, aspettavo di vedere mio padre svoltare l’angolo del cortile: è incredibile come ogni emigrante, pur potendo dormite in un letto comodo, abbia nostalgia del suo “paiun”!

Mio padre tornò una mattina di fine maggio e affrontò con l’orgoglio di montanaro la generosa offerta di un bel gruzzolo di soldi in cambio di un figlio adottivo. Da allora, la mia vita è stata piena di fatiche ma, ancora oggi, il ricordo della risposta di mio padre genera in me un sentimento di rispetto profondo e grande amore verso di lui : « Je suis désolé, monsieur, mais c’est mon petit Juan et il n’y a pas assez de francs en France pour payer mon petit Juan ! »(Mi dispiace, ma questo è mio figlio, il mio piccolo Giovanni e non bastano i franchi di tutta la Francia per pagare il mio piccolo Giovanni.)

Questo è ciò che mio nonno Giovanni, classe 1908, mi raccontava tante volte e che io distratta ascoltavo. E adesso, che io vorrei ancora tanto ascoltare i racconti della sua vita, lui non c’è più.

                                              
(Racconto di Alessandra Falco)


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